Notule

 

 

(A cura di LORENZO L. BORGIA & ROBERTO COLONNA)

 

 

 

NOTE E NOTIZIE - Anno XXII – 22 marzo 2025.

Testi pubblicati sul sito www.brainmindlife.org della Società Nazionale di Neuroscienze “Brain, Mind & Life - Italia” (BM&L-Italia). Oltre a notizie o commenti relativi a fatti ed eventi rilevanti per la Società, la sezione “note e notizie” presenta settimanalmente lavori neuroscientifici selezionati fra quelli pubblicati o in corso di pubblicazione sulle maggiori riviste e il cui argomento è oggetto di studio dei soci componenti lo staff dei recensori della Commissione Scientifica della Società.

 

 

[Tipologia del testo: BREVI INFORMAZIONI]

 

Individuato un asse di variabilità individuale della connettività rilevante per la cognizione. Hang Yang e colleghi, indagando l’organizzazione spaziale della variabilità interindividuale nella connettività funzionale (FC) del cervello umano, hanno individuato un’asse stabile di connettività funzionale lungo la quale la connettività varia in modo continuo e allineato con la variabilità strutturale. Il pattern di quest’asse evolve durante lo sviluppo ed è associato a differenze individuali nei processi cognitivi di ordine superiore, ossia di alto livello di astrazione. Lo studio di questo pattern potrà consentire di rilevare e diagnosticare precocemente uno sviluppo cognitivo che non segue le caratteristiche normotipiche o presenta una variazione francamente patologica. [Cfr. PNAS USA – AOP doi: 10.1073/pnas.2420228122, 2025].

 

Spettro LBD (incluso il Parkinson): una scoperta potrebbe aiutare la diagnosi precoce. Nelle malattie dello spettro LBD (Lewy body disorder, o malattia a corpi di Lewy), che includono la malattia di Parkinson, studi recenti hanno suggerito l’esistenza di forme con priorità del cervello e forme con priorità del corpo (brain-first e body-first): gli studi si sono focalizzati sulla propagazione dell’alfa-sinucleina attraverso la via parasimpatica vagale e la via del bulbo olfattivo, lasciando la possibilità di una via ortosimpatica rimasta inesplorata. Katrine B. Andersen e colleghi hanno rilevato una chiara distinzione tra le forme brain-first e body-first in casi precoci pre-diagnostici con lieve patologia. Le accurate indagini svolte dai ricercatori dimostrano l’esistenza di 3 sub-tipi diagnostici ed evidenziano il ruolo del sistema simpatico accanto a quello già noto del parasimpatico. [Cfr. Nature Neuroscience – AOP doi: 10.1038/s41593-025-01910-9, 2025].

 

Dolore neuropatico: dimostrato il ruolo fisiopatologico di TRPC3. Studiando topi knockout per TRPC3 nel corno dorsale del midollo spinale, si è rilevata una riduzione del dolore neuropatico; al contrario, l’attivazione di TRPC3 induceva ipersensibilità meccanica acuta. La classica ipersensibilità meccanica indotta da fosfolipasi C, associata alla patologia del dolore neuropatico, era soppressa nei topi knockout. Shota Tobori e colleghi, proseguendo l’analisi al livello molecolare, hanno definito i meccanismi cellulari e molecolari della patogenesi del dolore neuropatico, suggerendo l’elezione di TRPC3 a bersaglio farmacologico per la terapia di questa frequente manifestazione clinica. [Cfr. PNAS USA – AOP doi: 10.1073/pnas.2416828122, 2025].

 

Anticipazione della ricompensa: chiarito un aspetto col rilievo fluorescente di DA. Il comportamento legato alla previsione della ricompensa nel condizionamento pavloviano è strettamente legato al rilascio di dopamina (DA) nello striato, ma finora non era stato chiarito quale fosse il segnale della dopamina per le associazioni stimolo-ricompensa. Gaoge Yan e colleghi hanno adottato la fiber photometry con un sensore fluorescente di dopamina per registrare gli incrementi temporanei della catecolamina, in scimmie impegnate nell’esecuzione di compiti di saggio. La tecnica si è rivelata efficace nel rilevare il segnale dopaminico associato alla previsione della ricompensa e ha evidenziato che le variazioni temporanee della DA variano in dipendenza dei territori dello striato. [Cfr. PNAS USA – AOP doi: 10.1073/pnas.2426861122, 2025].

 

La sofferenza dei bovini induce la messa al bando delle corride in Messico. Nei mammiferi sembra che il grado di sviluppo della sofferenza, in risposta ad esperienze associate a stimolazione nocicettiva, sia approssimativamente proporzionale al grado di evoluzione dell’encefalo e della base neurale per l’elaborazione cognitiva. Se accettiamo questa nozione orientativa, possiamo dedurre che un bovino soffra di più di un topo o di un ratto per una ferita o quando è sotto stress senza vie d’uscita. Pertanto, si può osservare che se è stato imposto da decenni ai ricercatori che sperimentano su animali vivi l’uso di analgesia e anestesia per non far soffrire topi e ratti, come mai si lasci far soffrire e morire per motivi di “show business” nella corrida i tori che, a quanto pare, soffrono molto di più?

La più grande plaza de toros, cioè arena per corride, non è in Spagna ma a Città del Messico: spesso ripresa in film, video turistici e servizi fotografici delle maggiori riviste del mondo, si chiama Plaza de Mexico, conta 42.000 posti a sedere ed è stata anche, in senso figurato, l’arena di un lungo scontro tra associazioni per i diritti degli animali e autorità governative messicane. Questa settimana lo scontro ha avuto termine con la vittoria delle associazioni: il parlamento di Città del Messico ha decretato la proibizione delle corride e la loro sostituzione con uno spettacolo incruento di simulazione. Le corna dei tori saranno munite di “protezioni” per evitare ferite ai toreri e ogni singolo match durerà non più di 15 minuti, dopodiché l’animale potrà tornare nella stalla del suo proprietario.

Gli attivisti sono solo parzialmente soddisfatti, perché ritengono che così non si è del tutto eliminata la sofferenza, ma i gestori del business delle corride promettono battaglie legali, sostenendo di non essere stati consultati: la verità è che si perderanno da subito ingenti guadagni. [Fonte: Thomas Graham in Mexico City and The Guardian, 18 March 2025].

 

Uno scheletro di 62 milioni di anni getta luce sull’enigma di un misterioso mammifero parente dell’uomo. Da più di 140 anni Mixodectes pungens, una creatura parente dell’uomo che abitava sugli alberi quando 66 milioni di anni fa si ebbe l’estinzione dei dinosauri non aviari, è considerata un mistero in termini biologici ed evoluzionistici. Il mistero è stato subito evidente nel 1883, quando il celebre paleontologo Edward Drinker Cope ha scoperto e descritto i primi resti fossili di questa specie: difficoltà di interpretazioni dell’anatomia, della dieta, del comportamento e della posizione nel “Tree of Life” filogenetico.

Ora, nel San Juan Basin in New Mexico, il paleontologo Thomas Williamson ha scoperto uno scheletro di Mixodectes maturo, con integra una parte del cranio con i denti, la colonna vertebrale, la gabbia toracica, gli arti anteriori e gli arti posteriori, e lo ha studiato con l’antropologo Stephen Chester della City University di New York e con l’antropologo di Yale Eric Sargis.

L’analisi del reperto ne ha rivelato la stretta parentela con primati e colughi. I colughi, provenienti dal sudest asiatico, sono anche detti “lemuri volanti”, ma impropriamente, perché non sono lemuri e appartengono ai Dermopteri e, sebbene siano nei loro grandi salti i migliori mammiferi planatori (Galopiteco delle Filippine o Cynocephalus volans) non sono capaci di volare[1]. I tratti comuni con primati e colughi fanno del Mixodectes pungens un parente stretto del genere Homo.

Due analisi filogenetiche realizzate secondo due diversi criteri hanno chiarito che il misterioso mammifero arboricolo appartiene alle Euarchontans, un gruppo di mammiferi costituito da primati, colughi e tupaidi; ma per altri aspetti i due criteri filogenetici portano a deduzioni non coincidenti. Anche se questo reperto non risolve tutti i problemi di inquadramento e classificazione dei Mixodectes, conferma la vicinanza al nostro genere, indica la capacità di rimanere appesi a rami d’albero in verticale, chiarisce attraverso l’analisi dei denti (crestati) che erano onnivori ma prediligevano le foglie, che erano più grandi di altri mammiferi arboricoli simili, e che l’evoluzione dei placentati ha avuto un’accelerazione dopo l’estinzione dei dinosauri. [Cfr. Scientific Reports Mar. 11, 2025].

 

Il potere evocativo delle immagini agisce sul corpo per via neuroendocrina. L’argomento è stato trattato in un incontro della Società Nazionale di Neuroscienze BM&L-Italia, in cui si è studiata la neurobiologia della risposta evocativa cerebrale alle immagini. La prima relazione ha preso le mosse dagli storici esperimenti di Harrison con le colombe bianche: poste l’una accanto all’altra, un esemplare maschio e una femmina, senza possibilità di sfiorarsi ma solo di vedersi, dopo un po’ di tempo la femmina ovulava. Ritenendo che l’effetto neuroendocrino fosse stato prodotto dall’immagine, e notando che i maschi e le femmine delle colombe bianche sono uguali, Harrison ripeté l’esperimento con due femmine: ovularono entrambe. Per avere la certezza – poi confermata da studi successivi – che imago specie-specifiche fossero in grado di generare una risposta del corpo, per effetto della loro elaborazione da parte del cervello, Harrison pose nella gabbia vicina a quella della colomba in osservazione, ad opportuna distanza, uno specchio. La colomba si guardava allo specchio, credendo si trattasse di un altro membro della propria specie e, dopo poco, ovulava. La semplice immagine riflessa allo specchio, senza bisogno d’altro (ferormoni, esperienza acustica, tattile, ecc.) era riuscita a generare un riflesso neuroendocrino capace di preparare alla riproduzione.

Dopo questa introduzione, sono stati discussi tutti gli aspetti noti delle basi neurofunzionali delle risposte evocative; si è analizzata la specificità della specie umana, e sono stati presentati i progressi compiuti nello studio della neurochimica delle risposte evocate. [BM&L-Italia, marzo 2025].

 

I destinatari dei ricettari del Trecento e la breve storia di una brigata di giovani gaudenti. Proseguiamo nei nostri appunti di storia della cucina per sensibilizzare circa la necessità di ritornare alla preparazione casalinga dei cibi, evitando i prodotti dell’industria alimentare (v. in Note e Notizie 15-02-25 Notule: I nuovi studi su microbioma intestinale e asse cervello-intestino evidenziano l’importanza dei costumi alimentari; Note e Notizie 22-02-25 Notule: Appunti e curiosità su abitudini alimentari e cucina presso i Romani antichi; Note e Notizie 01-03-25 Notule: Da Roma a Firenze: appunti di cucina medievale italiana prima del primo libro di cucina; Note e Notizie 08-03-25 Notule: Dai costumi alimentari medievali alla nascita del lessico della cucina italiana; Note e Notizie 15-03-25 Le straordinarie ricette del Modo di cucinare et fare buone vivande rivelano i gusti dell’epoca).

Dopo aver conosciuto le ricette del primo libro di cucina fiorentina e italiana possiamo più facilmente comprendere le conclusioni a cui giunsero gli studiosi dell’Ottocento sul manoscritto: si rivolgeva soprattutto a un’élite di ricchi borghesi gaudenti, che si potevano permettere l’uso delle spezie, il cui costo esorbitante le aveva fatte diventare un vero e proprio status symbol dell’epoca, e potevano, ad esempio, acquistare la costosissima carne di castrone, ossia di un agnello castrato e allevato nutrendolo in maniera ricca e abbondante per farlo ingrassare e fare assumere alle sue carni quel sapore per cui è così ricercato[2]. Questa tesi è stata accolta dagli studiosi dei nostri giorni, come si può costatare leggendo le parole del curatore della prima edizione critica del Modo di cucinare et fare buone vivande, Simone Pregnolato, che dice delle ricette “opulente persino, ed esibiscono dosi abbondanti e ingredienti costosi, d’appannaggio tipicamente borghese (come il lardo, i vari tagli di maiale quali l’arista e la carne di castrone «agnello castrato», o come le spezie, adoperate in maniera quasi esasperata): il che fa sorgere il sospetto che proprio a questo ceto di neo-ricchi il ricettario potesse rivolgersi ed essere destinato”[3].

Ma possiamo andare oltre questa ragionevole supposizione, e cercare di capire perché il manoscritto del 1338 è considerato il capostipite di una serie di ricettari trecenteschi, detti dei “dodici ghiotti”. Perché questo nome? L’interpretazione intuitiva che si legge nella maggior parte dei testi propone questo significato: la denominazione si deve al fatto che i banchetti venivano allestiti per dodici commensali. È vero che per una norma di buon gusto, si direbbe di galateo cristiano, si evitava di essere in tredici come nell’Ultima Cena, ritenendo la cosa sconveniente o quasi blasfema; da questa regola, che limitava al massimo di dodici per ogni desco gli invitati a pranzo o a cena, è derivato lo standard dei servizi da dodici di piatti, posate e bicchieri[4]. Questa spiegazione, un po’ generica per rendere conto del numero dodici, non spiega perché li si chiama “ghiotti”.

Gli eruditi del passato che avevano esaminato tutti i ricettari del Trecento, ci forniscono una traccia importante, che trova riscontro in Dante Alighieri e Giovanni Boccaccio[5], ma per dire di questa traccia, a questo punto, è necessario narrare, sia pur in estrema sintesi, una celebre storia del costume toscano.

Benvenuto da Imola ed altri contemporanei narrano di dodici giovani provenienti dalle più nobili e ricche famiglie di Siena, che si riunirono in un elegante e solenne edificio medievale, che loro ribattezzarono “La Consuma” – ancora visitabile in Via Garibaldi a Siena – per costituirsi legalmente, con tanto di statuto, in un sodalizio denominato Brigata spendereccia. I giovani avevano fatto cassa comune delle loro fortune e avevano solennemente giurato fedeltà allo scopo associativo di spendere in banchetti, gozzoviglie, festini e ogni sorta di divertimento associato a libagioni e piaceri della tavola, fino all’ultimo fiorino del patrimonio della “Brigata”.

Sei dei dodici scialacquatori possiamo identificarli grazie a Dante. Ma leggiamo innanzitutto la menzione della brigata nel XXIX canto dell’Inferno: “…brigata in che disperse/ Caccia d’Ascian la vigna e la gran fonda/ e l’Abbagliato suo senno proferse”. Nel canto XIII dell’Inferno (120-121) si fa menzione tra gli scialacquatori di Lano da Siena, e ancora nel canto XXIX si fanno i nomi, quali membri della brigata, di Stricca e Niccolò dei Salimbeni, Niccolò dei Bonsignori, Caccia d’Asciano (Caccianemico di messer Trovato degli Scialenghi, XXIX, 131) e Bartolomeo dei Folcacchieri detto “Abbagliato”. Sulle avventure dell’allegra brigata godereccia sono fiorite innumerevoli storie, seguite alla prima scritta da Boccaccio, ossia la novella 9 nella VI giornata del Decamerone, interamente dedicata alla brigata dei dodici senesi. Secondo Benvenuto da Imola, l’insana brigata spese 216.000 fiorini, una cifra che oggi equivarrebbe sicuramente a svariati milioni di euro.

Il poeta Jacopo di Michele detto Folgore da San Gimignano parla già di un’altra brigata nobile e spendereccia, lasciando supporre l’esistenza di emuli e proseliti, così che è lecito supporre che il modo di dire “dodici ghiotti” si riferisse a tutti coloro che avessero almeno in parte uno stile di vita che ricordava i quotidiani banchetti degli sperperatori senesi.

Dunque, è ragionevole ipotizzare che il Modo di cucinare et fare buone vivande, e i ricettari che lo hanno seguito in quegli anni, si rivolgessero a tutti gli amanti della buona tavola, definiti in quel modo anche perché la cultura e la sensibilità cristiana dell’epoca condannavano questo “fare un dio del proprio ventre”, secondo il severo giudizio evangelico.

Ma per identificare quello che oggi chiameremmo target del manoscritto e di tutte le altre raccolte di ricette di quegli anni, è stata suggerita un’altra interessante possibilità: nell’Alto Medioevo l’arte del cucinare era trasmessa quasi esclusivamente per tradizione orale e non esisteva la professione del cuoco, che sarà riconosciuta proprio verso la fine del Trecento; quindi i ricettari, probabilmente rivolti soprattutto a coloro che per lavoro preparavano vivande e cucinavano per i banchetti, sarebbero una testimonianza del processo socio-culturale che portò alla definizione della figura del cuoco in Italia e in Europa.

Si è già detto del linguaggio e della scrittura del Modo di cucinare et fare buone vivande, ma si può ancora aggiungere qualcosa a proposito del particolare lessico adoperato.

Si può innanzitutto osservare il gran numero di forestierismi adoperato in questo scritto e nei ricettari degli anni seguenti: abbiamo menzionato i gallicismi, ma un’accurata analisi storico-linguistica rivela prestiti da vari altri idiomi continentali; e a volte si tratta di termini provenienti da una lingua che li aveva presi a prestito da un’altra, o da altre lingue che avevano coniato per vivande esotiche parole a calco o per eufonia da idiomi di terre lontane. Si impiegano termini di uso regionale nel Trecento: ad esempio, quei piccoli e gustosi molluschi bivalve (Donax trunculus, Donax semistriatus), che si trovano in abbondanza nel fondo sabbioso del Tirreno e oggi sono detti telline o arselle, a Firenze e in gran parte della Toscana si chiamavano “calcinelli”, e con questo termine sono sempre menzionate nel manoscritto. Un nome peraltro conservato ancora oggi in altre regioni: a Fano si pratica la pesca delle telline nel fondo delle acque basse con un particolare arnese, chiamato “ferro per calcinelli”.

Infine, non possiamo non menzionare il fatto che il Modo di cucinare et fare buone vivande è stato al centro di un dibattito linguistico riacceso di recente, in cui si fronteggiano due tesi: la prima sostiene che il gergo della cucina meriti il riconoscimento di linguaggio settoriale se non proprio di gergo tecnico-scientifico, la seconda nega questa possibilità. La prima tesi è stata progressivamente accettata da un numero sempre maggiore di studiosi, anche se il lessico dei cuochi non sembra possedere tutti i requisiti necessari per il riconoscimento formale.

Contro il riconoscimento si è pronunciata Giovanna Frosini che, notando come non esista alcuna codifica formale e culturalmente trasmessa del gergo culinario, ha così sintetizzato gli elementi ostativi: 1) mancanza di univocità nella corrispondenza tra gli oggetti e i termini di denominazione usati; 2) mancanza di una terminologia unitaria e coerente; 3) impiego da parte dei cuochi di un linguaggio vario, variabile e non controllato, con frequente uso di termini impropri o forzati, rispetto all’uso più autorevole[6].

Secondo la Frosini: “La lingua della cucina ha sì un fondamento terminologico specialistico, ma interagisce – e potentemente – con la lingua comune”[7].

Questa bocciatura non ha impedito, però, ad altri studiosi di sottolineare, proprio prendendo spunto dal manoscritto del 1338, l’uso esclusivamente culinario di termini nati in altri contesti, quali burro, mostarda, arista e vermicelli, la ricorrenza caratterizzante di alcuni elementi come il suffisso “-ata” (crostata, porrata, mandorlata, ecc.) e, infine, i neologismi gastronomici.

Simone Pregnolato rimane convinto della dignità di linguaggio settoriale per il gergo culinario-gastronomico: “La straordinaria varietà delle denominazioni, la grande abbondanza dei geosinonimi, la diffusione all’estero, l’arricchimento progressivo del vocabolario grazie ai dialettalismi, il largo numero di forestierismi, la presenza di casi di notevole continuità fra il passato e il presente”[8].

 

[continua]

 

Notule

BM&L-22 marzo 2025

www.brainmindlife.org

 

 

 

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[1] Gli unici mammiferi capaci di volare sono i pipistrelli.

[2] Presso regnanti, nobili e signori, che disponevano di animali allevati dalla servitù per le esigenze alimentari di palazzo e per i banchetti, si provvedeva per alcuni capi a questo particolare trattamento. Da questo uso venne quello degli allevatori che facevano i castroni per venderli: si trattava di un investimento protratto non privo di rischi, che richiedeva di essere adeguatamente remunerato.

[3] AA.VV., Il più antico ricettario in volgare: un codice del Trecento alla Riccardiana di Firenze. Finestre sull’Arte, 02/09/2022, Firenze.

[4] Nel tempo, come è noto, fra le persone lontane dal sapere religioso e dallo spirito cristiano, è nato il tabù superstizioso dell’evitare di essere in tredici perché quel numero “porterebbe male”.

[5] Un riscontro si trova anche in Guido Cavalcanti.

[6] La studiosa fa riferimento, in particolare, al lessico dei programmi televisivi di cucina.

[7] AA.VV., Il più antico ricettario in volgare: un codice del Trecento alla Riccardiana di Firenze. Finestre sull’Arte, 02/09/2022, Firenze.

[8] AA.VV., Il più antico ricettario in volgare: un codice del Trecento alla Riccardiana di Firenze, op. cit., idem.